GERMANIA, 1943-1945  
In questa sezione si possono trovare le pagine di un libro scritto da mio padre per raccontare le vicissitudini della sua prigionia in Germania, durante la Seconda Guerra Mondiale.  
Mi scuso se, per difficoltà tecniche, non ho potuto pubblicare le fotografie.  
Questa è un’opera che, aldilà del suo valore letterario, invito tutti, grandi e piccoli, a leggere per la testimonianza storica e umana che offre.  
Sia a me che a mio padre farebbe molto piacere ricevere commenti a riguardo. Chi fosse interessato a farlo, può indirizzarli alla mia casella e mail  
lallausai@gmail.com 
 
PROLOGO  
KOSOVO, 1942-1943  
Tutto è cominciato, come avrò modo di dire, nel febbraio del 42. Ero un ragazzo di vent’anni, appena arruolato nella R.G. di Finanza, con l’aspirazione a un posto sicuro che mi consentisse di guadagnarmi onestamente la vita e di sfuggire alla miseria che attanagliava Selegas e gli altri paesini della Sardegna e non solo.   
Il Kosovo era ed è una regione aspra, montagnosa, dove le comunicazioni erano difficili e gli inverni gelidi e interminabili. La popolazione, allora piuttosto povera, era in maggioranza di etnia albanese e di religione islamica, molto legata alle tradizioni: le donne, per esempio, facevano vita ritirata e portavano il velo.  
Ma veniamo alla mia storia. Nel febbraio del 42 ero appena uscito dalla scuola per allievi finanzieri e fui subito inviato, con un migliaio di compagni, presso il centro di mobilitazione di Bari, dove fummo trattenuti un paio di mesi e sommariamente addestrati ed equipaggiati. Si formarono il Quindicesimo e il Sedicesimo Battaglione Mobilitato Regia Guardia di Finanza. Il primo, di cui facevo parte, venne inviato nei Balcani, l’altro nelle isole greche. Era l’estate 1942.  
Sbarcammo a Durazzo e alcuni di noi furono quasi subito inviati per un rastrellamento nella zona di Kavaje, proprio dove, durante la guerra civile, aveva sede il campo di accoglienza del nostro esercito. A luglio ci caricarono su alcuni automezzi e percorremmo così il tragitto Durazzo Scutari Prizen Kukes. Lo stato delle strade era disastroso, ma ricordo anche alcune imprese italiane impegnate in lavori di ristrutturazione delle stesse. A Kukes, due episodi poco piacevoli: un commilitone smarrisce il moschetto e io (la fame non ci mancava) faccio indigestione di noci.  
Da Kukes a Pec, sempre in camion: ho attraversato in pratica tutte le località di cui si è parlato nelle le cronache di guerra.  
Il Comando di Battaglione aveva sede a Pec. Io e alcuni compagni fummo distaccati presso un villaggio dell’interno, al confine tra il Kosovo e il Montenegro. Il Kosovo era stato da Mussolini annesso all’Albania (protettorato italiano) e il nostro compito era quello di presidiare il confine. Trascorremmo lì l’inverno 42-43, talmente lungo e gelido da costringerci ad accumulare provviste perché, da ottobre ad aprile, la neve isolava il nostro villaggio rendendo pressoché impossibile qualsiasi spostamento.  
Agli inizi del 43 ci diedero l’incarico di scortare un esattore delle tasse giunto da Tirana. Mangiavamo e pernottavamo presso i civili. I kosovari, con noi, si sono sempre mostrati ospitali e ben disposti, malgrado la povertà e l’isolamento. Ma il villaggio di Melai era collegato al resto del mondo solo da mulattiere e non si disponeva né di radio né di telefono.  
Il pericolo di attacchi da parte dei titoisti convinse il Comando a spostarci a Cerkwinia, una località sul confine serbo-kosovaro, attraversata dalla camionale, servita dal telefono e non lontana da Tutin, la sede del nostro Comando. Nella zona, la popolazione era in prevalenza albanese, ma vi era una consistente minoranza serba, tuttavia tra le due etnie non si rilevavano gravi attriti. Il versante serbo del confine era presidiato dai tedeschi, nostri alleati fino al fatidico 8 settembre.  
L’armistizio ci precipitò nel caos, nessuno sapeva cosa fare, neppure gli ufficiali del Comando. Il brigadiere che comandava il nostro reparto, era preoccupato perché avrebbe dovuto, con la smobilitazione, portare al sicuro materiale militare e, non disponendo di mezzi, dovemmo contattare alcuni capiclan perché ci fornissero cavalli e carretti. Era la sera del 9 settembre. Uscendo dal villaggio, i doganieri tedeschi ci salutarono con la consueta cordialità.  
Subimmo in seguito un attacco ad opera di partigiani titoisti che volevano derubarci e fummo costretti a tornare indietro. Fu allora che i tedeschi, con nostra grande meraviglia, ci disarmarono e ci catturarono: ebbe così inizio per noi il calvario della prigionia.  
Il Kosovo dei miei tempi era povero, ma le tensioni etniche non erano, o quantomeno non sembravano così gravi; i rapporti con noi, malgrado il nostro ruolo scomodo di invasori, erano improntati a ospitalità e cordialità.  
AMEDEO USAI  
1  
8 SETTEMBRE 1943  
CERKWINIA ( Kosovo), 8 Settembre 1943, ore 19,30.  
Dal Comando Compagnia di Tutin viene trasmesso un fonogramma con cui ci informano che l’Italia ha chiesto l’armistizio agli Anglo Americani, noi tutti contenti ed entusiasti della bella notizia, presto tutti a casa. Un’oretta dopo giungeva il proclama di Badoglio, “La guerra continua”, non si capisce contro chi, aumentare la vigilanza e stare in stato di allerta. La notte trascorse tranquilla.  
Il giorno 9, come precedentemente stabilito a me e al mio collega Walter Verde fu ordinato di recarci a Tutin, paese distante una quindicina di chilometri, dove aveva sede il Comando di Compagnia, per portare e ritirare la corrispondenza in partenza e in arrivo.  
Si parte al mattino presto e verso le dieci siamo sul posto e all’arrivo abbiamo trovato un gran casino, praticamente avevano dato il si salvi chi può. Io e il collega ci presentiamo al Comando e precisamente al Capitano Avanzi, chiedendogli cosa dovevamo fare, restare o tornare al nostro reparto. Ci consigliò di rientrare. In quelle ore, i militari del Presidio,quattro o cinquecento persone, stavano razziando i magazzini delle scorte di viveri e di vestiario, per non lasciarle in mano ai Tedeschi o ai Partigiani. Io e il mio compagno decidemmo di rientrare al nostro reparto dando ascolto al Capitano. Mangiammo un boccone e ci avviammo a compiere il viaggio di ritorno, con un po’ di paura in mezzo a boschi pullulanti di partigiani che potevano essere interessati alle nostre armi personali (due moschetti 91 e tre o quattro caricatori di munizioni), però il buon Dio ha voluto farci giungere sani e salvi a Cerkwinia.  
Questa località si trova nella parte nord est del Kosovo e precisamente al confine con la Serbia, zona presidiata dai soldati tedeschi che sino a quel momento si erano dimostrati dei buoni vicini.  
Rientrati al nostro reparto, constatammo che anche lì ci si preparava per un ripiegamento.  
Il presidio militare della succitata località era costituito, da parte italiana da una decina di Finanzieri facenti parte del XV° Battaglione Mobilitato della R.G.F., con sede a Pec, cinque o sei Carabinieri e, da parte tedesca,una diecina tra Gendarmi e Doganieri, con posti di blocco e sbarre di confine invertite, cioè in zona italiana quello dei Tedeschi, e viceversa, Italiani in zona tedesca.  
Per l’evacuazione del presidio, il Comando militare di Tutin aveva predisposto il rientro di tutti i reparti dislocati nel circondario, per organizzarci e poi proseguire, sempre a piedi, sino a un porto della Dalmazia o dell’Albania per il possibile rientro in patria.  
Gi ordini superiori erano: abbandonare tutto ad eccezione di armi, munizioni e viveri a secco per affrontare la lunga marcia; ma il brigadiere che ci comandava aveva in consegna un mucchio di materiale, sci, equipaggiamenti invernali e tante cose, parecchie delle quali ingombranti, e avendo paura che alla fine gliene chiedessero conto, decise di portarsi tutto dietro. Non avendo mezzi propri, cioè veicoli di nessun genere, chiese come consuetudine agli abitanti del posto la loro collaborazione, che consisteva nel fornirci bestie da soma e qualche carretto trainato da buoi: questo avveniva con facilità perché si era in buoni rapporti con la popolazione e con il capo villaggio.   
Il 9 Settembre, al rientro dalla missione affidataci, intorno alle tredici i colleghi e il Comandante avevano già predisposto tutto per il ritiro, una ventina tra muli e cavalli col basto, tre o quattro carri a buoi con i relativi proprietari per riportarsi indietro le loro bestie alla fine del viaggio.  
Intorno alle 16,30, dopo aver salutato quasi tutti gli abitanti di Cerkwinia, ci avviammo lungo l’unica strada esistente in zona, passando dal posto di blocco dei Tedeschi, che si fecero trovare tutti schierati per salutarci. Ci avviammo lentamente, anche perché i mezzi non permettevano diversamente, il pomeriggio era caldo e noi ci siamo tolte le giubbe posandole sui cavalli o sui carretti per essere più liberi.   
Dopo un paio d’ore di viaggio, ci siamo introdotti in una valle con boschi fittissimi, da qui in avanti, i civili che ci accompagnavano cominciarono a squagliarsela con la scusa di qualche bisogno fisiologico o altro; nel giro di pochi minuti, con noi era rimasta solo una persona e anche lui stava tentando di allontanarsi. Un finanziere intuì quello che stava per succedere, spianò il moschetto e chiese lo “stoi” (alt), ma non fece neanche in tempo a puntare l’arma che ci venne addosso una scarica di fucileria.  
Noi come abbiamo potuto ci siamo messi al riparo e aspettato il buio per poterci sganciare e decidere il da farsi, ringraziando Dio di non aver avuto feriti, ma solo qualche escoriazione procurataci cercando riparo al momento dell’imboscata. Comunque abbiamo perso tutto perché i cavalli e i buoi, vistisi abbandonati, al momento della sparatoria sono scappati, quello che volevano i Titoisti per rubarci tutto.  
A questo punto, ci siamo riuniti ed abbiamo tutti d’accordo deciso di rientrare al punto di partenza, cioè Cerkwinia, dove ci attendevano i Tedeschi a cui sette, otto ore prima avevamo stretto la mano, che ci hanno disarmati e fatti prigionieri. E qui inizia la Via Crucis.  
2  
IN VIAGGIO SUI CARRI BESTIAME  
Il resto della notte l’abbiamo trascorsa chiusi in una camera della caserma dei gendarmi tedeschi, la mattina del giorno 10 sveglia alle sei e prepararsi per il trasferimento a Novi Pazar, cittadina distante una ventina di chilometri. La marcia durò tutta la mattinata e venivamo esibiti come trofei. Giunti nella nuova località, ci portarono in un punto di raccolta dove già affluivano i nuovi ospiti, ed i nostri custodi erano quei signori che sul bavero della giubba avevano le due esse stilizzate e il fregio del berretto era un teschio umano: le famigerate SS. Al momento però non è che fossero molto conosciute, quindi la loro presenza non ci preoccupava più di tanto: in seguito si sono fatti conoscere.  
Il trattamento riservatoci, fin dall’inizio non è che fosse dei migliori, il mangiare per due giorni zero, per noi che eravamo stati presi fuori dalle caserme e non avevamo potuto fare delle scorte erano problemi. Quando finalmente si sono decisi, i pasti erano così combinati: pranzo, un mestolo di sbobba forse fatta con rape e verdure varie, cena idem, pane quando c’era, una specie di focaccia da dividere in tre o quattro, fatta con farina di orzo, tutta ariste e paglia, che riuscivamo a mandare giù con tanta fatica e tanta acqua.  
La permanenza in questa località durò una decina di giorni, il tempo necessario per raccogliere un migliaio di prigionieri e fare un bel carico. Tra alti e bassi, anche se tristemente, le giornate passano, e menomale, siamo freschi di prigionia e quasi tutti ragazzi ventenni o giù di lì, la malinconia non ci prende anche se l’essere sorvegliati da quei brutti ceffi armati fino ai denti non era cosa tanto gradita.  
Dopo qualche giorno, già si mormorava di partenza per nuove destinazioni, chi parlava di Italia, specie per noi Finanzieri, perché non eravamo considerati da parte dei Tedeschi forze combattenti, chi di Germania, comunque il trattamento, da tutti i punti di vista, era sempre peggiore.  
Qualche sera dopo, in occasione della distribuzione del pasto, i nostri carcerieri ci parlarono dell’imminente partenza, infatti la mattina successiva sveglia presto e preparativi per l’ignoto viaggio. Anche questo non è che si prospettasse tanto di piacere: iniziò con una ventina di chilometri di marcia per coprire la distanza intercorrente tra Novi Pazar e Mitrovitza, località dove ci attendeva un treno composto da una cinquantina di carri bestiame; la prassi era cinquanta prigionieri per carro e così fu. Tra conti e calcoli vari trascorse la giornata e all’imbrunire si parte, per dove non si sa.  
Quello che ci sorprese fu che non chiusero le porte dei carri, però in compenso avevamo una buona scorta, armata anche di mitragliatori. Il viaggio non è che si prospettasse tanto comodo, anche perché non disponevamo neppure di un metro quadrato ciascuno di spazio per poterci sistemare alla bell’e meglio. Il tran tran del treno, la stanchezza per la giornata trascorsa fermi o camminando, comunque sempre in piedi, fa sì che le forze comincino a mancare e il sonno prenda il sopravvento; il problema era come sistemarsi in quel poco spazio, ma se da un lato era scomodo, dall’altro serviva per tenerci caldo, essendo privi di coperte e anche di indumenti personali.  
Il viaggio fu molto precario da tutti i punti di vista: senza acqua, senza mangiare, niente gabinetti, quindi anche per i bisogni più impellenti ci si doveva arrangiare, per le “cose” piccole in qualche fessura del carro, per l’altro sporgendosi con il sedere fuori dal vagone, facendosi tenere da due compagni di sventura, tutto questo perché pure con il treno fermo era rischioso scendere.  
Dopo la prima notte di viaggio, a stento siamo arrivati a Belgrado; anche lì la sosta si era protratta per una quindicina di ore, senza poter scendere dai carri e senza mangiare. A notte inoltrata si riparte, ignorando la prossima meta. Durante questi tragitti con tante fermate in campagna e per la bassa velocità dei convogli, a qualcuno balenava l’idea di scappare, specialmente a quelli che provenivano dal Friuli, Trentino, Veneto e Venezia Giulia, che pensavano di poter raggiungere facilmente le famiglie. Per noi sardi era una cosa impossibile e l’idea della fuga non ci ha mai sfiorato.  
Il mattino seguente, il convoglio si è fermato in un grande scalo, con acqua e servizi igienici veri e col permesso di poter scendere, così abbiamo fatto un po’ di pulizia personale, e anche il bucato, dato che la giornata era splendida. Eravamo alla periferia di Budapest e non so se sia stata un’iniziativa di qualche patronato locale, o dei Tedeschi (ma mi sembra impossibile), fatto sta che verso mezzogiorno vediamo arrivare dei camion civili carichi di marmitte e sacchi di pane; non si può immaginare la nostra gioia, non credevamo ai nostri occhi, tutto questo ben di Dio dopo giorni di digiuno. Durante questa sosta, da parte di qualche prigioniero fu presa l’iniziativa di fare una raccolta di sigarette e di offrirle ai macchinisti per accelerare il viaggio, onde arrivare al più presto in Italia. Di sigarette se ne procurarono parecchi pacchetti, ma in Italia non siamo giunti mai. Dopo una giornata trascorsa un po’ diversamente dalle precedenti, verso sera, tra urli, grida e spintoni ci siamo ritrovati dentro i soliti orribili carri bestiame, pronti per la partenza.  
Anche stavolta si viaggia di notte, si vede che era previsto il notturno, si parte anche adesso con i carri aperti. Però strada facendo sono stati chiusi e bloccati dall’esterno, per paura che, in prossimità del confine austriaco qualche prigioniero scappi, data la vicinanza con l’Italia. A Vienna siamo giunti in mattinata, con i carri sempre sbarrati, però questa volta i nostri carcerieri si sono ricordati del pasto, sul mezzogiorno sono arrivati con una ciurma, forse erano prigionieri anche loro, di altre nazionalità, hanno aperto le porte il tanto che bastava per infilarci una mano e allungarci una ciotolina di cartone pressato, grande supergiù come una coppa di gelato, però grezza, con dentro una specie di brodaglia con qualche pezzetto di sporca verdura. Tali recipienti si potevano usare una volta soltanto, perché si inzuppavano e si deformavano, quindi dovevamo buttarli, ma avevamo pensato di tenerli perché tornassero utili per un altro servizio: essendo chiusi nei carri, senza la possibilità di uscire, ce ne siamo serviti come vasi da notte, cioè ognuno di noi, quando gli veniva voglia la faceva dentro la sua ciotola e poi buttava il tutto fuori dal finestrino, destreggiandosi per farla passare in pochi centimetri quadrati, perché era tutto intrecciato di filo spinato.  
Anche da Vienna siamo partiti al calar della sera; quello di farci viaggiare di notte e di giorno tenerci fermi nelle stazioni su queste sporche tradotte, era una forma di esibizione e propaganda dei Tedeschi verso i loro concittadini “Siamo forti, stiamo dominando il mondo”.  
Ora il viaggio si svolgeva in territorio tedesco quindi le cose si complicavano, oltre ai soliti maltrattamenti dei nostri carcerieri, si aggiungeva quello dei cittadini che ci sputavano e ci schernivano dicendocene di tutti i colori:” Italien scheiser”, tradotto in italiano, merda, tutti eravamo chiamati “Badoglio”. Ma si sopportava con santa pazienza, sperando che finisse presto.  
Prima di giungere al capolinea, cioè al campo di concentramento, passarono un paio di giorni uno peggio dell’altro, ricordo un particolare che mi scosse molto: il treno si era fermato in aperta campagna e le signore guardie aprirono i vagoni dicendoci che potevamo scendere, che la sosta era di mezz’ora. Ci siamo dati da fare per poter sbrigare i nostri impellenti bisogni fisiologici e risalire sui carri; qualcuno s’è attardato, il treno è partito prima e un ragazzo con i pantaloni ancora giù ha fatto per aggrapparsi al treno ed è finito con una gamba sotto la ruota. Non ho mai saputo che fine abbia fatto, era stato portato via dai signori tedeschi con un carrettino a mano.   
3  
IL CAMPO  
Il campo di concentramento era situato quasi al confine con l’Olanda, infatti, per arrivarci, abbiamo dovuto attraversare obliquamente tutta la Germania. Man mano che si procedeva, si incominciavano a vedere i segni della guerra, soprattutto fabbriche bombardate, e per noi era un grande sollievo.  
Il giorno preciso non lo ricordo, ma sarà stato alla fine di settembre, quando siamo giunti al campo di concentramento. La località non me la ricordo, perché ne abbiamo cambiati un paio, ricordo però che eravamo tra i primi a giungervi. La stazione non era molto vicina, ma non è che loro se ne preoccupassero più di tanto, anzi erano felici di farci fare lunghi giri per poterci esibire come dei trofei.  
Questo luogo di pena era situato in una landa desolata, poche piante, quasi niente verde, zona piatta, non si vedeva una collinetta, tutto calcolato per impedire eventuali fughe.  
La grandezza dell’ opificio ci impressionò tanto, chilometri e chilometri di reticolati con intercalate torrette munite di mitragliatrici e fotoelettriche per una perfetta sorveglianza. La recinzione perimetrale del campo alla base era larga una decina di metri, un vero e proprio “muro”, di filo spinato alto sette od otto metri, più un supplemento di grovigli vari per un altro paio di metri. Dalla parte interna del reticolato, distante una decina di metri, scorreva un semplice filo spinato sospeso con dei paletti a un’ottantina di centimetri da terra, con tanto di cartelli con la scritta “Achtung” (attenzione), vietato avvicinarsi e oltrepassare: si sarebbe rischiata la vita, perché le guardie sparavano.  
L’estensione era nell’ordine di centinaia di ettari, suddivisi in diverse gabbie, contenenti ciascuna decine di grandi baracche sprovviste di infissi, quindi senza porte né finestre.  
Al nostro arrivo, fummo accolti nell’anti lager, un grande spiazzo davanti all’ingresso. Per prima cosa ci perquisirono, le persone e quel po’ di bagaglio che ci portavamo appresso, ci tolsero tutto, perfino le matite e i fogli di carta, non parliamo poi di coltellini o macchine fotografiche.  
Dopo un paio d’ore, al termine di queste operazioni, ci venne propinato un bel comizio, il predicatore era un italiano in divisa da gerarca sopra un bel palco addobbato con qualche fascio littorio ed altra simbologia del regime. L’argomento della predica era aderire alla Repubblica di Salò, dato che il Duce era di nuovo libero e si trovava in Germania per provvedere alla formazione del governo della nuova repubblica e alla creazione dell’esercito; a questo scopo, contava su noi deportati, anziché marcire nei campi di concentramento ci offriva la possibilità di rientrare in patria in piena libertà. A questa proposta aderirono in pochi: qualche fascista sfegatato, qualche settentrionale col proposito di fuggire appena messo piede in Italia; per noi sardi, e per i meridionali in genere questa possibilità non c’era perché il territorio era già stato liberato dagli Angloamericani, quindi, purché fossimo trattati umanamente, ci andava bene anche la prigionia.  
Verso sera, al termine di tutto quanto,fummo avviati dentro il campo,in gabbie separate ma confinanti: una per noi, l’altra per chi aveva accettato quanto gli era stato proposto. Questo aveva un motivo ben preciso: dovevamo vedere il trattamento migliore riservato a queste persone, con la speranza, per i tedeschi, che noi, vedendo queste cose, potessimo cambiare idea.  
4  
KRIEG GEFANGENEN  
La sistemazione nella nuova dimora era molto precaria. Intanto erano saltati i due pasti della giornata e noi eravamo ancora digiuni; per non parlare della notte che ci aspettava, a quelle latitudini già ai primi di ottobre faceva freddo, specialmente di notte, le baracche erano vastissime, senza porte né finestre, il pavimento di terra battuta, anzi, per meglio dire, di sabbia smossa; noi dovevamo riposare lì senza nulla per ripararci.  
In prossimità delle baracche vi erano delle cataste di tavole già usate; noi abbiamo subito pensato che potessero essere utili per dormirci sopra, prese e sistemate a mo’ di pavimento, così almeno non eravamo sulla sabbia, ma i signori guardiani prima ci han lasciato fare tutto quanto, poi, quando ormai tutto era pronto, son venuti incavolati, dicendoci che dovevamo toglierle, perché erano infette, dato che lì sopra ci erano morti di tifo petecchiale dei prigionieri russi, quindi dovevamo togliere tutte le tavole e risistemarle com’erano, per poi dormire per terra in mezzo alla sabbia.  
Per tenerci un po’ di caldo, si dormiva con tutti i nostri stracci addosso e appiccicati uno all’altro: quando si doveva cambiare posizione, bisognava farlo tutta la fila contemporaneamente.  
Adesso era giunto il momento di diventare ufficialmente prigionieri; ci fecero passare tutti uno per volta davanti a una commissione composta da ufficiali tedeschi e alcuni SS; per prima cosa, ci fecero la foto con il numero da prigioniero, la targa che ci ha accompagnati per quasi due anni, per seconda cosa ci stampigliarono con la vernice sulle gambe dei pantaloni, sul dietro della giubba e sul copricapo la sigla K.G. (Krieg Gefangenen, prigionieri di guerra). Quindi ci fecero un interrogatorio di terzo grado, luogo e data di nascita,luogo e reparto di provenienza,studi, religione, idee politiche, professione o mestiere. Noi, per una ragione più che plausibile, dichiarammo di essere quasi tutti agricoltori o contadini, con la speranza che, prendendo questo in considerazione, ci avviassero a lavorare in campagna, lontano dai bombardamenti a città e industrie, in posti dove non sarebbe stato neppure difficile racimolare qualcosa in più da mangiare. Ma tutto questo non si avverò perché nessuno di noi fu mandato a lavorare in campagna.  
Nel campo restammo una decina di giorni, per sbrigare tutte queste cose. Nel frattempo, tutti i giorni arrivavano a migliaia i nuovi ospiti, il lager si stava riempiendo, e i signori padroni già pensavano di travasare questa marea umana (di italiani internati eravamo quasi settecentomila) nei più piccoli Arbeit Lager (campi di lavoro).  
Come al solito, l’organizzazione della distribuzione dei pasti lasciava molto a desiderare e più di una volta si è saltato tutto, compresa la distribuzione del pane.  
Un’altra cosa che scoprimmo in quel recinto fu che in qualche angolo nascosto e fuori mano il terreno era più smosso del normale, cosa che ci insospettì; senza farci vedere dai padroni, scavammo un po’ e si scoprì che sotto c’erano dei cadaveri in decomposizione: subito noi collegammo tutto alla storia delle tavole infette.  
5  
UNA VITA DIFFICILE  
Credo che fosse intorno al 10 ottobre; nel primo pomeriggio arrivarono cinque o sei giannizzeri, facce nuove, e anche le uniformi erano un po’ differenti. Quasi tutti avevano segni di cicatrici sulle mani e sul viso per ferite riportate al fronte. Avevano con loro un elenco e hanno iniziato a chiamare una serie di nominativi, circa duecento. Tra questi c’ero anch’io. Si doveva partire.   
Ci dettero un’oretta di tempo per poterci preparare, si raccolsero quei quattro stracci, si salutarono gli amici ed eccoci pronti. Il tragitto era di circa duecento chilometri, il mezzo per il viaggio un trattore agricolo con due o tre rimorchi. Siamo saliti tutti, ma il viaggio l’abbiamo fatto in piedi perché lo spazio era insufficiente. Siamo giunti a destinazione alle due di notte e alle sei del mattino dovevamo iniziare a lavorare.  
La nuova dimora era uno zuccherificio in produzione, non c’era il reticolato attorno, ma in compenso si alloggiava dentro lo stabilimento. Alle sei del mattino, già pronti per intraprendere la nuova attività, si dava il cambio ad alcune operaie ucraine (ex URSS) pure loro deportate. Con un po’ di difficoltà da parte nostra, ma con la guida dei cocciuti tedeschi, anche se piano piano, volenti o nolenti siamo diventati dei bravi operai zuccherieri. Io ebbi un posto quasi da privilegiato, ero addetto allo scarico delle barbabietole, che erano trasportate con carretti trainati da cavalli, perché camion e trattori si servivano di un altro posto. Il mio lavoro consisteva nello schiacciare qualche pulsante per aprire e chiudere delle botole, l’orario era di dodici ore, dalle sei alle diciotto con una breve interruzione a mezzogiorno. Per quelli che facevano i turni era più gravoso, specie quando si dovevano cambiare il turno di notte con quello di giorno, allora si dovevano sorbire diciotto ore, perché così combinato se lavoravi di notte anziché alle sei smettevi alle dodici e riprendevi alle sei del giorno successivo per fare la giornata, chi lavorava di giorno, per prendere il turno di notte iniziava alle dodici e smetteva alle sei del giorno seguente, quindi diciotto ore tonde tonde, tutto questo perché i turni erano due.  
Io, a scaricare carretti, mi trovavo quasi bene anche perché i conduttori erano quasi tutti “colleghi” cioè prigionieri polacchi, francesi, belgi e di tante altre parti, che erano sorpresi di vedere un italiano prigioniero come loro, dato che fino a un mese prima eravamo alleati con i Tedeschi. Questi carrettieri avevano alle spalle anni di prigionia e si erano ambientati; inoltre, lavorando e vivendo in campagna la sofferenza era meno, si vedeva dal loro aspetto, il colorito era bello ed erano anche in carne. Io invece ero molto malmesso, e loro facevano a gara per darmi qualche fetta di pane, delle patate, della frutta, specialmente mele; le patate le facevo arrostire nel carbone. Le caldaie andavano a lignite, che in Germania abbondava. Questi cumuli si accendevano per autocombustione, e per noi era una manna perché ci facevamo le patate arrosto e cuocevamo qualche barbabietola senza che i tedeschi se ne accorgessero, dato che era vietato. Il vitto che ci passavano non è che fosse ottimo e abbondante, anzi, era poco e fetente, quindi dovevamo integrarlo con qualcosa di extra per poter stare in piedi; quando non c’era altro, si cercava di racimolare qualche saccoccia di polpa di barbabietola essiccata per uso zootecnico.   
Gli alloggi, cioè i dormitori, perché altro non c’era, li avevano ricavati da un vecchio edificio che si trovava all’interno dello stabilimento: praticamente, tutto casa e lavoro. Non erano baracche, ma poco ci mancava. I giacigli erano, come al solito, letti a castello di tre o quattro piani, letti per modo di dire perché si trattava di una specie di scaffalatura che a stento uno ci entrava, con un sacco di paglia che chissà in quanti ci avevano dormito prima, il contorno di qualche animaletto, e una copertina che ti copriva per metà. Si dormiva con tutti gli stracci che avevamo addosso.  
Voglio raccontare anche come avveniva la distribuzione del pane: ci davano una specie di mattone, loro dicevano che era integrale, ma di integrale penso che avesse anche la segatura; questa pagnotta pesava un chilo circa ed era da dividere in tre. Per far sì che ciò avvenisse alla perfezione, non disponendo di una bilancia, abbiamo escogitato un sistema ed era questo: si misurava il pane con un pezzo di spago per la sua lunghezza. Lo spago veniva piegato in tre, il risultato si posava sul pane e si tagliavano tre parti. Non è finita, perché si faceva voltare uno degli interessati, si prendeva ogni pezzo e gli si chiedeva “Di chi è questo?”, lui doveva rispondere di Tizio; poi si prendeva l’altro e questo era di Caio e quello che rimaneva era suo. Un momento però: la razione era per due giorni, centosessanta grammi di pane al giorno e la cerimonia avveniva ogni quarantotto ore. Con la fame che avevamo, si mangiava tutto in una volta e poi si aspettava la prossima distribuzio